Vale la pena vinificare le uve rare
Uve ormai dimenticate a volte poco qualitative ai fini enologici di cui rimangono poche piante. Produrre vino con queste uve è solo un capriccio?
Di Donatellla Cinelli Colombini, Montalcino, Casato Prime Donne
Salvare dalla sparizione le uve rare è importante << per scopi culturali più che enologici>> mi ha detto a Napoli il Professor Luigi Moio, concetto ribadito da Valerie Lavigne enologo e docente all’Università di Bordeaux <<in Portogallo ce ne sono molte ma solo qualcuna può dare buoni vini>>.
Vale dunque la pena di salvare le uve rare dal lungo passato storico anche se non danno origine a grandi vini, esse costituiscono frammenti della biodiversità e della specificità dei territori. Ma a cosa possono servire oltre che a creare delle collezioni destinate ai posteri? Ci sono casi fortunati come il Sagrantino sul quale l’Università di Perugia aveva dato parere negativo e grazie alla tenacia di Marco Caprai e al talento agronomico del
Professor Leonardo Valenti è diventato una star della viticultura italiana. In altri casi le varietà “orfane” davano, danno e daranno vini mediocri. Vini che tuttavia potrebbero originare delle mini produzioni sfiziose, qualcosa di rarissimo e particolare che il turista potrebbe comunque assaggiare anche solo per avere l’esperienza di un antico sapore locale. E’ il caso del progetto Senarum Vinea che mira a recuperare le varietà coltivate all’interno delle mura di Siena (Gorgottesco, Tenerone, Salamanna, Prugnolo gentile, Occhio di pernice, Procanico, Rossone, Mammolo) con un’azione che assomiglia al restauro e allo scavo archeologico. In pratica porterà alla produzione di vini, sicuramente mediocri, ma simili a quelli che bevevano i mercanti medioevali della città del Palio. Un vino “storico” che andrebbe sorseggiato nei boccali di terracotta come avveniva nel medioevo.