Wine maker australiane solo il 9% ma super

Stephanie Dutton at Penfolds Wines

Wine maker australiane solo il 9% ma super

Nelle cantine australiane le donne enologhe sono solo l’8,8% ma brillano come star e tutti credono stia avvenendo una vera rivoluzione rosa nel vino, invece no

Stephanie Dutton at Penfolds Wines

Stephanie Dutton at Penfolds Wines

Di Donatella Cinelli Colombini
Nel 2003 la Norvegia impose alle grandi società il 40% di donne nei loro consigli di amministrazione, seguì a ruota la Francia replicando il provvedimento. Poi Spagna (40%) e la Svezia (25%). Fuori dall’Europa le leggi sulle quote rosa sono rare anche se, in certi casi, ce ne sarebbe davvero bisogno. In Giappone solo lo 0, 4% degli amministratori delle grandi società sono donne. Persino in USA questa percentuale è solo del 16% ma esaminando Fortune 500 la percentuale dei CEO donne scende fino a un misero 4,4% (2013).

Kerri Thompson,

Kerri Thompson,

Le donne in posizioni apicali crescono ma molto lentamente soprattutto nei Paesi che non hanno nessuna legge sulle quote rosa. Vediamo ora la situazione nel vino; si tratta di uno dei prodotti più antichi, con 8.000 anni alle spalle, quindi di un settore strutturato in un passato remoto e fortemente tradizionalista.
Due lunghi articoli di Jeremy Galbreath della Curtin Graduate School of Business all’interno della Curtin University fotografano le donne nelle cantine australiane. Le analisi sono state pubblicate da Wine Economics nel febbraio e nel maggio 2014. In Australia, Paese nuovo produttore del vino, ci si aspetterebbe un approccio diverso e invece la situazione è più o meno uguale a quella europea: chi lavora nel vino lo considera un ambito da uomini.

corrina_rayment

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Anzi il profilo professionale e i compiti del top manager del vino sono costruiti su un identikit maschile comprese le attività correlate cioè gli ambiti sociali in cui vivono i dirigenti del vino fuori dalle ore lavorative. Le donne si sono adattate a quei profili senza creare un loro modello.
Le enologhe laureate nelle università australiane sono aumentate negli ultimi anni: sono il 30% ad Adelaide, il 50% a Melburne, il 54% alla Curtin University. La percentuale femminile scende sotto il 15% nella fase successiva, quando dalla formazione in aula si passa all’attribuzione degli incarichi di comando nelle cantine.
La presenza di enologi donne di grande visibilità e bravura come Vanya Cullen and Severine Logan nel Western Australia e Kerri Thompson, Pam Dunsford nel Sud del Paese ha creato la falsa impressione di un ricambio di ruoli e ha disincentivato l’impegno nel raggiungimento di un rapporto più equo fra i generi.

Kerri Thompson, winemaker

Kerri Thompson, winemaker

Le donne sono concentrate nelle imprese giovani, piccole e con minore propensione all’export. Un’analisi approfondita ha rivelato che la metà delle cantine hanno donne nel settore commerciale, il 12,7% ha un amministratore delegato donna e l’8,8% un enologo donna (sono il 3% nel totale delle compagnie australiane). Le donne manager del vino mostrano una maggiore attenzione all’ambiente rispetto agli uomini, pongono molto impegno nelle relazioni e questo le rende particolarmente performanti nel settore commerciale. Un altro tratto distintivo della leadership femminile è la propensione all’innovazione; in una fase in cui molti

Vanya-Cullens

Vanya-Cullens

aspetti del comparto dovranno essere rinnovati questo aspetto assume un valore molto positivo. Le donne si indirizzano più spesso dei colleghi maschi su strategie di innalzamento qualitativo e dimostrano un’eccellente capacità di degustazione che è di grande aiuto nell’arrivare a vini di alto livello.
Le donne hanno però un tallone d’Achille: rifuggono da luoghi molto competitivi, dove c’è una forte pressione e una forte conflittualità come le grandi società piene di colleghi rampanti.
Alla fine è evidente che gli studi sulle donne del mondo del vino sono a uno stato embrionale ovunque, che i profili professionali sono assolutamente maschili per cui le poche donne ai vertici si sono adattate a quelli e anzi, il loro successo ha persino innescato processi “protezionistici” che rischiano di mascolinizzare ancora di più il comparto.